Il suo significato

Con quest’Opera di Misericordia la Chiesa ci pone davanti ad una delle necessità immateriali che possono essere soddisfatte solo da qualcuno al di fuori di noi stessi. È un’opera che esprime la necessità naturale di una vita sociale, che dice la falsità di ogni prospettiva individualistica. Davanti al dolore, all’afflizione che deriva quando ci troviamo in situazioni di lutto, abbiamo bisogno di qualcuno che ci si ponga accanto, che riempia la nostra solitudine, che si dimostri capace di piangere con noi. L’essere umano è fatto per la felicità e tuttavia essa ci appare troppo spesso una condizione non disponibile e difficile da raggiungere. Il modo moderno di vivere e la cultura attuale sembrano addirittura aver accresciuto i motivi di tristezza e di desolazione: essi appaiono relegati ad un ambito troppo personale per essere condivisi e affrontati. Il Cristianesimo sa che l’uomo è collocato in una valle di lacrime e che, lasciato alle sue sole forze, non è in grado di uscirne se non negli spazi di un divertimento effimero e illusorio. Ogni battezzato, però, non può e non deve dimenticare di essere essenzialmente un annuncio di gioia. È la gioia di una salvezza già in atto, che aspetta soltanto che l’uomo la accolga e la viva. Essa è già alla nostra portata: l’Eucaristia ci dice che l’evento salvifico e la persona del Salvatore sono qui e oggi tra noi. Certo, i motivi di afflizione sono innumerevoli e la qualità di una società emerge solo se essa favorisce una sensibilità diffusa a favore di quanti si trovano nel pianto. Non parliamo di attivare figure professionali della consolazione quali psicologi e terapisti, ma di favorire la cultura della prossimità, di una prossimità che non ha paura di sporcarsi le mani con i bisogni del fratello. Gli afflitti, riconosciamolo con onestà, sono una categoria particolarmente difficile da incontrare. Afflitto indica colui che è colpito dalla vita e dalle prove. Gli afflitti ci mettono a contatto con il mondo della sofferenza: per la malattia, per la morte di una persona cara, per le disgrazie, per le ingiustizie, per la miseria, per la solitudine e per una miriade di motivazioni. Gli afflitti sono una categoria di persone la cui compagnia non è piacevole o divertente; sono persone che ci costringono a pensare al dolore della vita. Per questo la nostra cultura preferisce atteggiamenti opposti rispetto alla consolazione, quasi una fuga e una negazione. Consolare gli afflitti è invece l’atteggiamento di chi prende sul serio il dolore dell’altro, lo considera una soglia sacra cui avvicinarsi con umiltà e discrezione, e lo condivide, offrendosi di sopportarlo insieme. Consolare è un lavoro, una fatica che esige un cammino che parte da noi stessi e che ci permette di andare oltre le semplici formalità e la superficialità delle parole. Solo una persona che ha affrontato l’afflizione e ha saputo intraprendere un itinerario per abitarla e risolverla, può entrare con discrezione e intelligenza nel terreno di tribolazione degli altri e promuovere gesti o parole che possono donare sollievo e speranza.

Gesti concreti

La consolazione si esprime efficacemente anzitutto con la presenza fisica: andare a trovare un afflitto, stargli accanto, se possibile e far sentire la nostra vicinanza fisica (una stretta di mano, un abbraccio, una carezza…).

Un passo prezioso e fondamentale per consolare è il silenzio con l’ascolto: diffidiamo delle troppe parole soprattutto scontate e inutili.

Ricordarci sempre che le parole che possono consolare sono quelle che esprimono la condivisione e che annunciano una speranza. Non le parole che cercano di spiegare, giustificare, razionalizzare.

Comprendere che consolare non è risolvere i problemi, ma è saper portare il peso del dolore. La consolazione può giungere a condividere le lacrime (più ancora che volerle evitare all’altro).

Imparare a farci consolare da Dio per poter così anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione.

La preghiera allo Spirito Santo e la partecipazione all’Eucaristia, ai Sacramenti sono fondamentali per avere la forza di dare consolazione.

Ricordare che la speranza non muore mai. Davanti a noi c’è un cammino che rimane aperto. La parola definitiva della vita non è tutta in quello che viviamo ora, ma sta nel futuro di Dio, nella certezza della resurrezione.

Non perdere mai la fede: Dio è il nostro Redentore, è Colui che non ci abbandona e quando passiamo attraverso la prova e il dolore, Lui è sempre accanto a noi e soffre con noi.

Non avere paura di eccedere nella carità di portare i pesi gli uni degli altri, di sentire nostro il dolore che fa piangere un fratello, di non tirarci indietro rispetto all’esigenza di essere consolati e sostenuti nel momento del dolore.

Saper rispettare i tempi dell’altra persona e farle sentire il nostro affetto e il nostro amore incondizionato per lei.

Ricordarsi sempre che la consolazione è un fatto comunitario: la comunità e la Chiesa sono esperte di umanità e capaci con il nostro contributo di essere ospedali che possono guarire ogni ferita.

A cura di Alessandro Maffiolini