Il traffico d’armi alimenta i conflitti. Il Papa, partendo da un’esperienza personale, ricorda che il grido “La guerra è finita” dovrebbe essere ripetuto oggi da ogni persona per avere finalmente la pace nel cuore, ma anche in famiglia, nel quartiere, sul posto di lavoro, fino al mondo intero. I conflitti infatti prendono avvio dalle piccole cose e arrivano al traffico delle armi, ai bombardamenti di scuole e ospedali. “Dopo il diluvio, la prima immagine è quella colomba che, dopo aver girato varie volte, torna alla fine con un tenero ramoscello di ulivo nel becco”. Da qui si è iniziato a pensare che fosse finita la tragedia: “Per questo la colomba con l’ulivo nel becco è un segno di pace, è il messaggio di Dio all’umanità”. Da dopo il diluvio, Dio voleva che tutti gli uomini fossero in pace. Un altro segno è l’arcobaleno, è il segno dell’alleanza che Dio pone tra Sé e tutte le generazioni future. La terza parola è alleanza: colomba e arcobaleno sono realtà e segni fragili. L’alleanza che Dio fa è forte, ma non è facile custodire la pace: è un lavoro di tutti i giorni, perché nel cuore dell’uomo esiste ancora lo spirito di invidia, gelosia, cupidigia e volontà di dominazione. E questo porta alla guerra. Il Pontefice ha affermato: “Noi siamo custodi dei fratelli e quando c’è versamento di sangue c’è peccato e Dio ci chiederà conto; tanti fratelli e sorelle muoiono, anche innocenti, perché i grandi e i potenti vogliono un pezzo in più di terra, vogliono un po’ più di potere o vogliono fare un po’ più di guadagno col traffico delle armi”. Anche a noi il Signore domanderà conto del sangue dei nostri fratelli e sorelle che soffrono la guerra. Da qui nasce l’importanza di chiedersi seriamente “Cosa faccio quando sento che viene nel mio cuore qualcosa di rapace che vuole distruggere la pace? In famiglia, nel lavoro, nel quartiere, siamo seminatori di pace? La guerra incomincia qui e finisce là”. La pace va custodita, ma anche realizzata con le mani, artigianalmente, tutti i giorni.

 Tentati dalla mondanità. La vita cristiana è una vita con tentazioni: dobbiamo essere preparati alle tentazioni, perché tutti saremo tentati. La conferma si trova nel Vangelo di Marco, in cui si narra di Gesù che “andava con i discepoli decisamente, risolutamente verso Gerusalemme per compiere la Sua missione”, quella, cioè, “di fare la volontà del Padre”. Davanti alla dichiarazione esplicita di Gesù di essere ucciso e di risorgere, gli apostoli “non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo, di andare oltre, nelle spiegazioni”. Subivano, afferma il Papa, “la tentazione di non compiere la missione”. Sarà una tentazione in cui inciamperà anche Gesù. Una cosa interessante, per il Papa, è che i discepoli non volevano sentire questa parola di Gesù. Le difficoltà dei discepoli si chiariscono ancora meglio andando avanti nella lettura. Infatti “quando giunsero a Cafarnao, Gesù chiese loro: ‘Di che cosa stavate discutendo per la strada?’”. E essi “tacevano”. La prima volta avevano avuto timore e così ripetevano tra loro “Non domandiamo niente di più: meglio stare zitti”; stavolta si vergognavano perché per la strada “avevano discusso tra loro su chi fosse più grande”. Il Papa spiega: “Era gente buona, che voleva seguire il Signore, servire il Signore. Ma non sapevano che la strada del servizio al Signore non era così facile, non era come un arruolarsi in un’entità, un’associazione di beneficenza”. E avevano “la tentazione della mondanità”, tentazione che esiste ancora oggi nelle parrocchie: “Chi è il più grande, qui? Chi è il più grande in questa parrocchia? No, io sono più importante di quello e quello lì no perché quello ha fatto qualcosa…”. Anche il clero molte volte vive questa tentazione. Ha chiarito il Pontefice: “La missione è servire il Signore, ma poi il vero desiderio, tante volte, ci spinge verso la strada della mondanità per essere più importanti”. Il criterio di scelta per le nostre azioni, di fronte a certe tentazioni, è essere l’ultimo, il servitore di tutti, acquisire “la semplicità di un bambino, la strada del servizio e alla fine di una vita di servizio saper dire: ‘Sono un servo inutile’”.

A cura di Alessandro Maffiolini