Un sacramento ripetibile

Un’inversione di tendenza si profila all’inizio del VII secolo, quando un monaco irlandese giunge in Italia, fonda il monastero di Bobbio ed introduce un nuovo sistema penitenziale, proveniente dalle isole celtiche. Le comunità cristiane della Gran Bretagna e dell’Irlanda infatti non conoscevano il regime della penitenza antica e avevano elaborato un sistema penitenziale che prevedeva la penitenza privata ripetibile. In questo ambito, probabilmente nei monasteri cui queste comunità facevano riferimento, nascono i primi Libri penitenziali come guide ai ministri della penitenza, che contengono le classificazioni delle colpe cui corrispondono le penitenze da imporre, le cosiddette “tariffe”, lunghe e onerose. Grazie ai monasteri, questo sistema si diffonde nel continente, trovando ampi consensi. Sembra offrire tutto ciò che al regime antico mancava: la ripetibilità del sacramento, la segretezza del processo penitenziale al posto della dimensione pubblica, la liberazione dalle tasse penitenziali una volta saldate al posto della gravosità delle penitenze attive anche dopo la riconciliazione, l’accessibilità della penitenza a tutti.

I Libri penitenziali conoscono una particolare affermazione e sanzionano ogni tipo di peccato: le “tariffe” che essi contengono sono formate da digiuni, che vengono imposti non solo in base alla gravità della colpa, ma talvolta anche in rapporto allo stato di vita di chi l’ha commessa, e possono durare giorni, mesi o addirittura anni, rendendosi diverse volte insostenibili. Pertanto sin dall’inizio, esistono liste di sostituzioni per consentire al peccatore di “riscattare” il proprio digiuno attraverso opere compiute da lui stesso o effettuate da altre persone, in cambio di denaro, celebrazioni di messe o donazioni di terre. Tutta questa prassi fu una fonte di guadagno per i sacerdoti, per i monaci e per i monasteri, tenuto anche presente il fatto che ai penitenti più ricchi si assegnava la donazione di terre, la costruzione di chiese o di conventi.

A poco a poco perde significato il tema del fare penitenza, che diventa un “pagare” qualcuno senza produrre un effettivo cambiamento di vita; dall’altra assume rilevanza l’accusa dei peccati, ritenuta sempre fondamentale, senza la quale non può esservi perdono. L’obbligo di confessarsi al “proprio” sacerdote, invece, non riesce a realizzarsi, se non in modo marginale e per colpe lievi, che richiedono una penitenza privata, la cui giurisdizione spetta al parroco. Per i peccati gravi, che esigono ancora una penitenza pubblica, è necessario rivolgersi al vescovo, se non addirittura al Papa. I sacerdoti presenti nelle parrocchie risultano inadeguati ad accogliere la confessione annuale dei parrocchiani a causa della propria scarsa formazione. Si può quindi dire che questa nuova forma di penitenza, nata per facilitare la conversione dei cristiani, diventò una fonte di abusi che portò alla perdita del senso cristiano delle opere di penitenza.

Un modello diverso

ECCO ALCUNE CARATTERISTICHE CHE CONTRADDISTINUGONO IL NUOVO MODO DI CONFESSARSI

Ogni volta che una persona commette un peccato può chiedere di essere riconciliata da un sacerdote.

Avvantaggia la “normale” condizione di peccato di ogni uomo e pone al centro più che la fatica del processo di conversione, la confessione ripetibile del peccato fatta privatamente al prete.

Inizialmente non scompare l’itinerario laborioso perché il penitente deve compiere opere penitenziali spesso lunghe e dure per ottenere il perdono.

Le opere di penitenza vengono a poco a poco commutate in atti di devozione più agevoli e semplici.

La penitenza da compiere, piuttosto che un “fare” delle azioni per rimediare al male compiuto, consiste nel “dire” delle preghiere per proprio conto.

Emerge la figura del padre spirituale, un aiuto a prendere coscienza del proprio peccato e del cammino da compiere.

Riceve molta importanza il colloquio tra il penitente e il prete ed emerge un aspetto di giudizio su quanto detto dalla persona.

È data importanza alla confessione: diventa sempre più vera la fatica che crea rossore e invoglia al pentimento.

L’accento è posto sul “dire i peccati” e l’assoluzione viene collocata immediatamente dopo la confessione.

L’accusa dei peccati, l’itinerario penitenziale e l’assoluzione ora costituiscono un unico e puntuale “atto celebrativo” privatamente svolto tra confessore e penitente.

Le parti che compongono la confessione sono ridotte a una sfera squisitamente privata e interiore, riducendo notevolmente il tempo del sacramento.

Alla fine si afferma un primato della parola: parola del penitente che dichiara il peccato ed esprime il pentimento; parola del ministro che assolve il peccatore; preghiera di chi, dopo esser già stato assolto, ripara in questo modo al suo peccato.

A cura di Alessandro Maffiolini