Una nuova comprensione

Il primo passo è riconoscere il proprio peccato davanti a Dio e questo porta un certo dolore: è come spezzare e ridurre in polvere l’uomo vecchio per permettere la nascita di un uomo nuovo. È una sofferenza salutare che tuttavia non deve essere un punto di arrivo ma di rilancio. Il rischio è di ripiegare nel passato, mentre il cammino penitenziale richiede un salto nel futuro. Così la colpa è scoperta e può essere gioiosa se la poniamo nelle mani di Dio e ci mettiamo sotto la Sua Misericordia.

Siamo alla seconda tappa del cammino, che comporta una dichiarazione, l’ammissione di un qualcosa che prima era solo nascosto e che è stato portato alla luce. Nella confessione la persona dichiara esplicitamente il suo peccato davanti a se stesso e al ministro, rappresentante di Dio e della comunità. Da questo momento in poi occorre rendere concreto il proposito di cambiare vita. Dalla semplice parola serve arrivare alla vita, ai fatti concreti. Non è un obbligo: sorge come esigenza personale che deriva dall’appello, rivolto dalla Parola di Dio alla nostra coscienza, di rimediare al male fatto. Di fronte agli errori è naturale riparare per mostrare una nuova direzione data alla vita. Per questo motivo la confessione non si può ridurre semplicemente a una preghiera da recitare velocemente e spesso con distrazione, ma richiede con forza di iniziare un duro cammino di cambiamento di noi e di riparazione effettiva di quanto male fatto.

L’ultima tappa consiste nella realizzazione del nostro desiderio di riconciliazione che Dio dona a noi concedendoci la possibilità di rialzarci dalle nostre cadute e di cambiare vita. È l’essere sciolti dal laccio del peccato che blocca le persone in se stesse e le rende incapaci di pensare agli altri. Il peccatore è libero dalla propria prigionia ed è restituito alla dignità di figlio di Dio. Al sacerdote che agisce “in persona Christi”, è assegnato l’incarico di annunciare la liberazione che Dio offre continuamente aprendo un futuro più capace di amore. Il ministro della confessione allora non è un giudice, ma con la sua umanità porta la risposta della Misericordia di Dio agli esseri umani. Il sacerdote si fa prossimo alle sofferenze dei fratelli per rendere presente il grande amore del Padre che si china sulle sofferenze dei figli per annunciare la possibilità di essere curati e di trasformare i fallimenti in gioia di vita nuova.

Dove, quando e perché

Dal 1500, come detto, il sacramento della confessione si celebrava normalmente nel confessionale, una specie di mobile che nelle chiese garantiva la segretezza della colpa e rendeva inaccessibili i volti del penitente e del sacerdote. La parola “detta” e ascoltata era l’unica cosa che creava un contatto tra i due. La natura di questo sacramento richiederebbe una piena visibilità che garantisca di parlarsi non solo attraverso il linguaggio della parola, ma anche con quello dei gesti, degli sguardi, capaci di rivelare realtà più profonde nelle persone. Col tempo il confessionale è diventato un luogo freddo che rischia di creare distacco, di non favorire un vero dialogo onesto e sincero e di non permettere la visibilità ad alcuni segni espressivi, quali l’imposizione delle mani, che aveva valore riconciliatorio. Un luogo nuovo, insomma, da costruire non solo in ambienti particolari, ma nell’ordinarietà degli edifici parrocchiali.

Bello e utile sarebbe l’individuare un tempo non costretto dalla fretta, ma vissuto con calma ed entusiasmo. Si arriva perfino agli sconti del ‘2×1’ nei sacramenti: partecipiamo in qualche modo alla Messa e strappiamo qualche minuto per andare a confessarci nella speranza di non trovare nessuno che impedisca un inizio immediato. Il tempo opportuno di ogni sacramento dovrebbe essere come quello di un appuntamento fondamentale, che non si perderebbe per alcun motivo. Alcuni minuti non sono sufficienti: va concesso tutto il tempo necessario per riflettere, fare silenzio, mettersi in ascolto della Parola. Abbiamo una concezione che vede nella confessione una condizione necessaria per accostarsi alla Comunione; e questo è entrato purtroppo anche nella prassi catechistica dei bambini e ragazzi. Il rischio è di aver ridotto il quarto sacramento a una realtà puramente funzionale; l’Eucaristia diventa riservata “a chi ha superato la prova”.

La confessione sembra quindi simile all’assunzione della medicina quando siamo malati e desideriamo guarire: lo facciamo sotto controllo medico e nelle dosi necessarie. Nella vita cristiana ci si ammala quando si cade nel peccato e si rompe la comunione con Dio, con noi stessi e con i fratelli. La Confessione è allora la medicina che Dio ci propone come rimedio alla nostra malattia per ridarci la salute spirituale e permetterci di portare la Misericordia del Padre a tutti. Non siamo bravi cristiani, ma cristiani che vogliono seguire Cristo.

A cura di Alessandro Maffiolini