Sono ormai oltre tre anni che la nostra Chiesa diocesana sta vivendo una stagione tutta particolare: quasi un “cantiere” aperto su tanti fronti. Anzitutto quello delle Unità Pastorali Missionaria (UPM). Queste sono frutto di un lavoro di oltre dieci anni che ha trovato nel XXI Sinodo la conclusione e la loro nascita ufficiale; rimane ancora tanta strada da percorrere. Non è sufficiente avere un decreto del Vescovo che definisce i nomi, i confini e i relativi moderatori. Se i sacerdoti, per primi, non credono nella necessità di lavorare insieme in un determinato modo e i moderatori non hanno uno sguardo che vada oltre la loro comunità, i loro interessi e il loro desiderio di mettersi in mostra, non si potrà mai andare avanti. Si procede a condizione che s’imposti un cammino serie in cui la riflessione le scelte arrivino dalle comunità e dall’equipe: altrimenti abbiamo cambiato il nome, ma l’idea di fondo è rimasta uguale alla precedente. I sacerdoti devono rendersi conto di essere degli strumenti del Signore e non i proprietari di una comunità: la responsabilità se non è condivisa con i laici dei Consigli Pastorali e di quelli Economici, diventa una semplice dittatura. Sarebbe utile che anche a livello di codice di diritto canonico si compissero le necessarie modifiche in tal senso. Se non si ha la volontà di procedere su questa strada, le UPM, o qualunque altro nome sarà dato, rimarranno solamente lettera morta e serviranno a ben poco. Rimangono ancora molti i passi da compiere per le UPM già avviate e per le quali il cammino intrapreso non sempre risulta lineare e corretto. Il Sinodo ha rivolto, alla Diocesi e alla parrocchie diverse novità, che sono da metter in pratica con intelligenza, sapienza e serenità. Diventa lecita l’obiezione di chi avverte tutte queste proposte come un qualcosa che va ad aggiungersi alle già molte attività pastorali delle nostre comunità. Ma che dire, allora, in risposta a quanto scrive papa Francesco nell’Evangelii gaudium, “La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio del “si è sempre fatto così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture e i metodi di evangelizzatori delle proprie comunità”. Perché di questo si tratta, scrive ancora il Papa: “Tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno”. Dal battesimo ricevuto, nasce la chiamata alla conversione: l’obiettivo è di far arrivare a tutti il vangelo di Gesù. Dal volto del Redentore, le nostre comunità cristiane mai devono togliere lo sguardo; è una conversione, però, che oggi ha particolare bisogno di stimolare tutti i credenti a essere corresponsabili della missione della Chiesa. Altrimenti la Chiesa non potrà fare molto e alcuni risultati si vedono chiaramente anche nelle nostre comunità parrocchiali. Solo attraverso il confronto fra gli operatori pastorali presenti nelle parrocchie, è possibile attivare dei veri e propri processi partecipativi per aiutare a individuare i fini e i mezzi per una “conversione pastorale e missionaria”. In alcuni casi, richiederà di mettere da parte la voglia di protagonismo di laici, sacerdoti e religiosi per scegliere insieme quali debbano essere le priorità cui dare maggior attenzione, mettendo magari in secondo piano qualcosa di quanto “da sempre si è fatto”.

don Alessandro Maffiolini