Is 55,10-11/ Rm 8,18-23/ Mt 13,1-23

Uscì a seminare

Se Gesù ha salvato il mondo, perché noi assistiamo ancora e ancora alla follia del dolore e della guerra? Se egli era davvero la presenza stessa di Dio, se la sua morte ha cambiato il cuore dell’uomo, dov’è questa salvezza? Erano le domande che si poneva la comunità di Matteo, travolta dalla repressione dell’Impero romano che era giunta a distruggere il tempio. È la domanda che ci poniamo anche noi, dopo duemila anni di cristianesimo, di annuncio, di vita cristiana. È la domanda che si pongono le nostre comunità, i nostri pastori, talvolta scoraggiati, smarriti, delusi. Perché nonostante tutto l’impegno che mettiamo nel raccontare il volto luminoso di Dio stentiamo ad essere ascoltati ed accolti?

Il seme

Al centro della parabola Gesù pone il seme. Lui è il protagonista: è la Parola rivelata dal Padre per bocca di Gesù e poi accolta e ritrasmessa dall’evangelista alla sua comunità e da questa al mondo. Il messaggio è chiaro: il seme agisce da sé ed è efficace al di là della bravura del seminatore o della qualità del terreno. Per tre quarti delle volte la semina è destinata a fallire. Dall’altra, è altrettanto vero che una volta su quattro il risultato è stupefacente, ben al di là delle aspettative. La parabola è un incoraggiamento, un invito alla fiducia, uno sguardo positivo sulla realtà. Racconta la logica di un Dio che lascia liberi di accogliere e di ascoltare il suo messaggio. Oppure di rifiutarlo. O di accoglierlo parzialmente, per poi lasciarlo inaridire e morire.

Il terreno

La Parola viene gettata a piene mani. Da Dio, da Cristo, da noi discepoli. Poi, che accade? La parabola diventa quasi un’allegoria e l’incoraggiamento diventa un avvertimento. Se sei un annunciatore resta sereno e lascia agire il seme. Prima di tutto, sei uno che accoglie la Parola, sei il terreno. Guarda il tuo cuore: prima accogli, poi annuncia. Perché annunci solo ciò che accogli. È Gesù stesso a parlarne e a spiegare le sue parole. Il seme cade sulla strada, su un cuore indurito, perché calpestato da molti. Gesù constata che ci sono dei cuori apparentemente impermeabili a qualunque sollecitazione di fede, incapaci anche solo di lasciare che qualcosa scalfisca le loro incrollabili certezze. Sanno. Di Dio, della fede, dei cristiani. Non hanno bisogno di nulla. Su questi cuori il seme rimbalza. Poi viene Satana e lo porta via. Da brividi. La Parola che cade sulla strada è destinata a sparire. Un cuore indurito, pietrificato, asfaltato, apparentemente è impossibile da cambiare. Non per Dio, che semina anche sull’asfalto. Poi Gesù continua: se il seme trova anche solo un briciolo di terra, germoglia. Ma ha bisogno di costanza. Così accade ad alcuni discepoli. Subito accolgono la Parola: con entusiasmo. Ce ne sono di persone così, adulti che riscoprono la fede grazie ad un viaggio, ad una giornata di ritiro, ad un’amica credente che li coinvolge. Ed è bello vedere nel loro sguardo lo stupore di scoprirsi amati da Dio e la voglia di conoscere. Il primo cuore è indurito. Il secondo è incostante. La fede diventa una parentesi della vita, anche felice, certo, ma una parentesi. Ha ragione, Gesù: il seme va coltivato, va protetto dal sole troppo caldo, dalle intemperie. La Parola va custodita, approfondita, meditata, pregata. Gesù continua. Diversa è la situazione di chi ha costanza, di chi accoglie la Parola e la custodisce ma intorno a lui crescono altri interessi che si ingrandiscono e, alla fine, soffocano la Parola che rimane, ma non porta frutto. È presente, ma inutile. Sopraggiungono le preoccupazioni del mondo, il pre-occuparsi; ed invece di vivere il momento presente, di assaporare il tempo, lo amplifichiamo, lo estendiamo, e così la preoccupazione contagia la nostra vita e la nostra anima. E la soffoca, come una pianta infestante. E anche la bramosia soffoca il seme, cioè il desiderio smodato, auto-referenziale, fuori controllo. Dei soldi, della casa, del cibo, del sesso… Ogni cosa rischia di diventare un idolo e di ingigantirsi fino a prendere il controllo di noi stessi, fino a mettere ai margini la nostra anima. Ma esiste un’ultima possibilità. Meno male.

Frutti

Il tono della parabola cambia. È un finale colmo di speranza. Esiste un terreno buono che accoglie e porta frutto; in cui la Parola converte. E produce un gran raccolto: trenta, sessanta, cento per uno. Gesù usa un’iperbole per indicare che il seme produce molto più di quanto immaginiamo o speriamo. Ed è proprio ciò che accade: a fronte di tanto insuccesso, agli occhi degli uomini, resta il fatto che milioni di persone, accogliendo il vangelo, hanno radicalmente cambiato la propria vita. Noi fra questi. Io, fra questi. E anche noi possiamo dire che avere accolto il vangelo della nostra vita ha comportato qualche rinuncia. Ma ci ha dato cento volte tanto.

Cavallo Renato